I nostri figli forse non hanno mai sentito parlare di colera, eppure è stata un’esperienza drammatica per la nostra città di Napoli, da poco più di quarant’anni. Era nell’agosto del 1973 che si diffuse, forse non tanto la malattia, quanto la psicosi del contagio.
Pensare al colera, significa spostare i nostri pensieri al continente africano, al terzo mondo, a una condizione igienico-sanitaria certamente deficitaria. Intanto, solo pochi decenni fa, in una metropoli come la nostra, lo spettro della malattia infettiva si fece estremamente presente.
La parola “vibrione” divenne di uso comune, e addirittura fu fonte d’ispirazione per canzoni, attività teatrali, come farse dialettali e barzellette. Ovviamente ribattezzata dal popolo con accento partenopeo in «‘o vibbrione».
E forse, proprio grazie alla filosofia napoletana del tutto passa, abbiamo dimenticato anche questo, come il terremoto del 1980…
La Psicosi
Per la prima volta, dalla fine della guerra, si è vissuto un periodo di grave preoccupazione sanitaria nella città che certamente non splende per la sua pulizia neppure oggi. Quando i primi casi furono diagnosticati all’ospedale “Cotugno” non più come “gastroenterite acuta”, cominciò un tam tam che divenne ben presto psicosi. Non c’erano i telefoni cellulari e non esistevano i social network, ma ai primi sintomi di diarrea, vomito, e crampi alle gambe, scattava l’allerta collettiva. Spesso immotivata, ma si ricordano le scene viste in tv dei familiari dei pazienti ricoverati, accalcati davanti ai cancelli del Cotugno in attesa dei bollettini medici. Anche il nome di quell’ospedale, posto in un luogo non facilmente raggiungibile nei pressi della collina dei Camaldoli, divenne improvvisamente famoso. Come il professor Giulio Tarro, virologo di fama mondiale, che isolò il vibrione, ma che all’epoca era sconosciuto al grande pubblico.
Si adottarono numerose misure di profilassi, file lunghissime presso i presidi ospedalieri, dove si somministravano le vaccinazioni. Si cominciò a non bere l’acqua dal rubinetto, considerata immotivatamente una possibile fonte dì infezione. Poi s’individuò che il vibrione si annidava all’interno delle cozze e cominciò la guerra ai mitili.
I Mitili
Anche in quel contesto, però, c’erano parti contrarie che si opponevano. Fu vietata la coltivazione e il consumo dei mitili, ma scoppiò la protesta accesa di quanti vivevano di quel commercio. Nello schieramento di questi ultimi non mancavano quelli che ostentavano addirittura il consumo delle cozze crude in aperta sfida e disprezzo del pericolo. La stessa sfida che portava alcuni, ancora a tuffarsi nelle acque limacciose e malsane di via Caracciolo.
In seguito si poté stabilire che Il responsabile dell’infezione non era all’interno delle cozze coltivate nel Golfo di Napoli, ma proveniva da una partita importata dalla Tunisia.
Abitudini Alimentari
Cambiarono, necessariamente, anche alcune abitudini alimentari. L’uso dell’Amuchina per lavare frutta e verdura, il consumo dei limoni, ritenuti un sistema per prevenire l’infezione. La preparazione della frutta cotta e l’approvvigionarsi di latte proveniente da allevamenti lontani dalla regione.
Sicuramente, molte misure erano empiriche e determinate non da fondamenti scientifici ma dalla semplice paura del contagio. A volte erano anche grottesche, ma erano conseguenza di aver posto attenzione a tanti gesti quotidiani sempre compiuti con grossa superficialità.
Il colera fece aprire gli occhi a molti su una serie di problemi che preesistevano all’epidemia, ma che fino ad allora erano come rimossi dalla coscienza collettiva: quartieri degradati, sia in città sia in provincia, condizioni igieniche da terzo mondo, un mare inquinato all’inverosimile e un sistema fognario vecchio di secoli, inadeguato alle esigenze imposte da una crescita urbanistica spaventosa e purtroppo incontrollata.
La Prevenzione
Probabilmente da quell’esperienza si cominciò ad abbozzare il valore della prevenzione. Un’idea che nella tradizione, collima poco con il carattere partenopeo, pronto a trovare soluzioni e rimedi con tanta fantasia e anche a costo di enormi sacrifici. Se avessimo pensato in tempo a come smaltire i nostri rifiuti urbani, oggi non avremmo l’emergenza dell’inquinamento, concausa di molti tumori. Ricordare dopo quarant’anni una catastrofe sfiorata, dovrebbe essere, non solo l’evocazione di un pericolo scampato, ma il pungolo per un impegno serio e costruttivo.